A volte i pensieri volano  lontano e si affollano nella mente mandandomi dei lampi di memoria, malgrado fossi piccolissima ricordo come se fosse ora il suono della sirena durante la guerra che avvisava la popolazione dell'incursione aerea, il trambusto in famiglia, la corsa giù per le scale che erano rischiarate da una lampada ad acetilene che disegnava ombre paurose sul muro mentre dal lucernaio oscurato di blu arrivava una luce inquietante ed io, in braccio a mia madre, avvolta in una copertina di colore rosa che andavamo al rifugio antiaereo, un luogo brutto scavato sotto terra proprio davanti ai giardini pubblici di casa mia, forse il colore della coperta è una elaborazione dei racconti di mia madre, non so, ma ho l'esatta sensazione che siano ricordi miei, così come il pregare degli anziani mentre seduti sui sedili di pietra del ricovero aspettavano al fine del bombardamento ed alcuni bambini terrorizzati si rannicchiavano abbracciando le ginocchia, come se fossero in una posizione fetale..
Che dire della mia infanzia, ricordo i  miei genitori, sempre presi a lavorare, sarto lui, pantalonaia mia madre lavoravano in copia dalla mattina alla sera chiusi nella piccola e fredda cucina della nostra casa dove non c'era il riscaldamento, ma neanche i vetri alle finestre che i bombardamento avevano infranto. A causa del loro lavoro malgrado fossero in casa  erano  poco presenti nei miei bisogni di bambina e non perché non lo volessero fare, ma per non rallentare il ritmo del lavoro  preoccupati a mettere insieme il pranzo con la cena e, quando ritiravano i soldi a fine settimana  sia da  Brioni che da  Caraceni, li dovevano restituire a chi aveva dato loro un prestito per  fare la spesa..
Non posso dimenticare mio padre, magrissimo con due baffetti neri che gli conferivano uno sguardo severo, ma in effetti simpaticissimo ed allegro, malgrado la mancanza di uno stipendio fisso che tanto agognava, ma che non arrivò mai.
Lavorava  seduto sul tavolo, sul quale poggiava la mezza luna di legno un attrezzo da sarto di cui non conoscevo l'utilità, per me aveva solo la funzione di proteggerlo dal freddo del marmo, mentre mia madre che passava molte ore a cucire nella fredda cucina indossava una vecchia e lisa pelliccia che era stata di mia nonna, ma che secondo me più che scaldarla la stancava...pesava una tonnellata.
Erano dolcissimi i miei genitori, quando ci mettevamo a tavola loro non avevano mai fame, e questo solo per riempire di più il nostro piatto e poi, mio padre mandava giù chili di bicarbonato scambiando per ulcera la sua atavica fame.
Erano tempi difficili in particolare per chi aveva genitori artigiani, con tre figli da crescere, da vestire calzare e istruire.
Ricordo ancora il mio grande disaggio quando dovevo indossare le scarpe risuolate smesse da mio fratello di un numero più grande che veniva compensato con l'ovatta che si usava per riempire le spalline delle giacche, ed il mio camminare sotto i marciapiedi, perché mi vergognavo pensando che le persone si accorgessero che le scarpe non fossero le mie.
Tutto il tempo lo trascorrevo in strada insieme ai miei fratelli ed ai loro compagni che abitavano nel palazzo, non mi piaceva  stare in casa quelle pareti fredde mi opprimevano, così come il senso di miseria che si respirava, però  malgrado non avessi molto, ero serena, mi bastava poco, e quel poco che avevo lo sapevo gestire,  i tempi erano brutti ma  io, di carattere allegra, rendevo reali i miei sogni che non si sarebbero mai realizzati, diventare una pianista una ballerina di danza classica o una attrice di prosa perché la condizione della famiglia non poteva permettersi lezioni private.
Quelle erano le tre cose che più desideravo e che sapevo rendere reali liberando la fantasia, uscendo dal mio corpo per dare vita a una Maria Antonietta completamente diversa, senza problemi, che viveva una fanciullezza senza affanni in parallelo alla vita reale che  non mi piaceva affatto.
Vedevo la mia vita come avrei voluto che fosse, sembrava un film di cui ero protagonista, raccontavo alle mie compagne di scuola di vivere in una casa bellissima un pianoforte a coda, e un copione pronto per recitare da protagonista al teatro Valle.
Però troppo spesso la vita mi riportava con i piedi per terra, in particolare il giorno in cui in fila nel cortile della scuola la suora non mi diede il panino per il refettorio, dicendo ad alta voce che mio padre non aveva pagato la retta, non mi persi d’animo e risposi che tanto non avevo fame. Avevo solo 6 anni.
Mia madre era un grande esempio d’amore nella mia famiglia,  sopportava con tanta pazienza ed affetto  le depressioni di mio padre, procurate dalla situazione economica che si accentuava di più durante le feste di Natale, perché aveva poco da offrirci in particolare in occasione dell’Epifania, quando ci aspettavamo ciò che avevamo desiderato da anni, ma che non arrivava mai.
Le loro rinunce, mi hanno insegnato ad apprezzare quello che mi potevano dare, era un grande dono tutto quello che potevo ricevere, come il prendermi in affitto un costume per carnevale rinunciando magari alle 5 sigarette Giubak o ai 25 gr. di caffè e farmi passeggiare a via Nazionale insieme a tanti altri bambini mascherati. la mia gioia era la loro gioia.
Le mie merende erano con pane e zucchero o pane e pomodoro al contrario delle mie amichette che mangiavano biscotti ma quando giocavo con la figlia del fornaio che mangiava pane e cioccolato con la scusa di tenere il panino quando era il suo turno di giocare a palla, grattavo con le unghie sotto la barretta di cioccolato zaini, e poi mettevo il dito in bocca.
Però anche io ho avuto momenti di vera gioia e non potrò mai dimenticare quel giorno che per la festa di San Giovanni allestirono un palco per il concorso di bellezza, mentre giravo tra le bancarelle che erano proprio sotto casa mia, tra campanelle di coccio lumache e zucchero filato sentii del concorso, andai a casa mia madre come al solito era seduta davanti alla macchina da cucire, la chiesi di accompagnarmi, ma lei doveva consegnare un lavoro urgente e non poteva, non mi persi d’animo, mi vestii con l’abitino della domenica di picchè bianco i calzettoni ricamati e le scarpe alla bebè dove mia madre passava la biacca per farle essere sempre bianche e mi avviai, ma l’organizzatore mi disse che non potevo essere iscritta perché ci voleva la presenza di un genitore, raccontai del lavoro della mia mamma e lui si intenerì  forse per il candore con cui avevo raccontato la cosa e leggendo sul mio viso una grande delusione mi fece iscrivere. C’era tanta gioia alla nomina dei vincitori, ed increduli tra il pubblico anche mio fratello e mio nonno che non credevano alle loro orecchie quando mi chiamarono sul palco come vincitrice della categoria  bambine. Mia mamma e mio fratello mi dicevano sempre che non ero bella  ma un tipo fu una grande rivalsa e questo avvenimento mi diede tanta carica, iniziai a credere in me stessa e a pensare che qualsiasi cosa avessi voluto intraprendere  nella vita ci sarei riuscita ero caparbia.
Nel 1951 nella scuola dove frequentavo la IV elementare venne un Maestro di musica Domenico Falzetti che cercava in tutte le scuole di Roma, 1000 bambini divisi in voci di 1 2 3 4 per un coro che si sarebbe poi esibito a Milano, venni scelta come prima voce eravamo divisi in 250 bambini per voce, partimmo dalla stazione ostiense con il treno dei piccoli cantori, era il mio primo viaggio avevo nel portamonete 200 lire mi sembrava di essere ricchissima.
Arrivammo alla Scala di Milano venimmo posizionati sul palco le bambine avevano il grembiule bianco con il fiocco azzurro e i bambini il grembiule blu con il fiocco bianco. Eravamo tutti seduti e quando si aprì il sipario all’unisono ci alzammo e scrosciò un grandissimo applauso.
In questo racconto di vita come dimenticare mio nonno con il suo nasone perennemente gocciolante, le unghie mummificate testimonianza del lavoro con la calce viva, la bocca sdentata che evocava sorrisi di bimbo, la sua grande bontà, le sue gambe arcate alla continua ricerca di un equilibrio ormai precario, il tuo posto a tavola vicino a me in quella piccola e fredda cucina, dove c’era poco da mangiare ma tanto amore che ci scaldava il cuore. I pomeriggi ad ascoltare la radio compagna della mia fanciullezza che accompagnava lui verso la vecchiaia e il ricordo di quando gli insegnai a scrivere il nome e cognome, perché quando andava a votare si vergognava a mettere la croce. quante risate e come ero severa quando voleva lasciar stare, ma poi quanto orgoglio nel veder compiuta la  nostra fatica. Una nostalgia infinita  delle sue favole, del pescetto di liquirizia e del cartoccio di fusaie,  che mi regalò fino agli ultimi giorni della sua vita  quando arrivò la cartolina come diceva lui e dovette partire, chiudendo per sempre i suoi  occhi nocciola .E come non far correre la memoria alle vacanze della povera gente come me che quando ero in vacanza dalla scuola, partivo per andare al mare dalla mattina alla sera, con una camionetta stracarica di gente, ci portava alla pineta di Castelfusano  ad Ostia allo stabilimento “Il mediterraneo”.
La spiaggia era frequentata da famiglie più o meno abbienti, i giochi sulla spiaggia erano i castelli di sabbia, le tamburelle, i più fortunati affittavano l’altalena.
I costumi erano di lana e quando uscivi dall’acqua, per il peso pendevano da tutte le parti, gli asciugamani oggi assolutamente griffati, erano quelli che si usavano per asciugarsi il viso la mattina, ruvidi come carta vetrata.
I ragazzi più grandi, mio fratello Raffaele compreso, costruivano degli enormi aquiloni colorati che volteggiavano in cielo, con le loro code lunghe e multicolore.
Si arrivava in spiaggia e dopo aver preso possesso della cabina, si iniziava la giornata, con i soliti bagni guardati a vista dai genitori, alcuni portavano in spiaggia delle enormi camere d’aria, che usavano come salvagente, pochi erano i ragazzi o gli adulti che sapevano nuotare.
Poi arrivava l’ora del pranzo da enormi fagotti, uscivano insalatiere piene di pasta al sugo, cartocci con fettine panate, mortadella e frutta. All’arrivo qualcuno si era preoccupato di insabbiare nel bagnasciuga un bel cocomero maturo alla guardia del quale restava sempre una persona.
Tutto questo si è perso negli anni, i bambini difficilmente giocano con i secchielli e le palette, pochi sono coloro che fanno i castelli di sabbia, ora ci sono le moto d’acqua, il deltaplano il motoscafo lo sci nautico, ma nel mio cuore tanta nostalgia di quei tempi, l’emozione di andare al mare, il fatto che ero bravissima a nuotare, e che gli altri bambini si fermavano a guardarmi.
Poi nel 50 ebbi la fortuna di andare in colonia, lì eravamo trattati come soldatini, in fila, l’alzabandiera, il comportamento a tavola.
Ma è tutto bellissimo da ricordare, così come la voce cristallina di un ragazzino che in refettorio cantava, era Antonio Ciacci, alias Little Tony, che abitava nella mia stessa strada, e con il quale sono cresciuta. Lui per noi ragazzini di quell’epoca con tanti sogni ma poche possibilità di renderli reali, è stato colui che ci ha riscattati, da una infanzia fatta di poco e per alcuni di niente lui è arrivato al successo con caparbietà e con tanti sacrifici, a noi  ci bastava giocare al giardino correre e giocare a  nascondino.
Il tempo passava mi ritrovai adolescente brava a scuola per dare ai miei genitori  delle soddisfazioni e a 17 anni come borsa di studio un posto da segretaria in una fabbrica di batterie e lampade elettriche, mi affacciavo ad una vita diversa dove potevo aiutare economicamente mio padre anche se percepivo solo 28.715 lire, ma dovevo lasciare anche i miei sogni.
Quei sogni che  erano in quel cassetto, dal quale prima o poi avrei forse potuto tirarli, fuori. Ed eccomi a 67 anni a cercare di   imparare pianoforte all’università della terza età, ma che ho dovuto abbandonare per sopravvenute difficoltà di vario genere .
Questa è la vita, tra alti e bassi tra felicità e tristezza, tra gioie e dolori, mi ritrovo a 72 anni a chiedermi cosa è la felicità. Le piccole cose di ogni giorno, lo sbocciare di un fiore dopo aver piantato un bulbo, lo scodinzolio dei miei cani, il sorriso della mia nipotina, dei tramonti splendidi che posso vedere dal giardino della mia casa andare a letto e dormire tranquilla per poter affrontare un'altra giornata.


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