Il primo capitolo dell'autobiografia scritta durante la guerra più pesante che abbia mai affrontato,  la guerra al male dell'anima: la depressione.

È un pomeriggio di primavera inoltrata, il sole è alto e la luce che filtra dalle persiane illumina tutta la stanza. Osservo il soffitto sopra di me, lo fisso a lungo senza vederlo. Quanto avrò dormito? Non più di tre o quattro ore, il turno di notte mi devasta, ne ho già fatti tre consecutivi, ancora due e finalmente potrò smettere di essere considerato un pipistrello.
Mi alzo svogliatamente e nonostante non mangi dalla sera prima, non ho per niente fame, devo provare a riprendermi, mi ci vuole una doccia. Osservo il mio viso riflesso allo specchio del bagno, la mia faccia è magra, tirata e nonostante porti i capelli molto corti, rasati sui lati e un poco più lunghi sopra, ormai il grigio predomina sul castano: sto invecchiando e anche velocemente. Sfilati gli occhiali, mi posiziono sotto il getto d’acqua appoggiando le mani sulle piastrelle per successivamente rimanere immobile alcuni minuti senza riuscire neppure a pensare.
Un caffè e poi la sigaretta. Dovrei ridurre, sono arrivato a fumarne un pacchetto e mezzo al giorno, ma non riesco, non ce la faccio proprio. Il problema che questo vizio mi accompagna da tanto, probabilmente troppo e poi sentire il fumo scendere nei polmoni mi rilassa, adoro anche tutta la gestualità che l’accompagna, per me è un vero e proprio rito, anche se a dire il vero, in questo periodo fumare non riesce più a darmi il piacere di un tempo, niente riesce più a darmi piacere di un tempo.
Giusy è in sala a sfogliare una rivista e accennato un saluto veloce, mi reco come mio solito in cucina immerso nell’irreale silenzio dell’appartamento. Fermo davanti la portafinestra, aspiro grosse boccate di catrame e nicotina di cui sono piene le mie MS osservando la roggia scorrere quieta sotto il bacone. Due germani litigano rumorosamente per spartirsi un pezzo di pane, una gallinella d’acqua, sbucata dal nulla, si intromette nella disputa ma viene scacciata immediatamente. Girato leggermente il capo, osservo uno scoiattolo percorrere la rete che divide il cortile, è davvero agile, un grande equilibrista. In lontananza sento il gracchiare dei corvi e il canto delle gazze di cui sono popolati gli alberi circostanti. Eppure qualcosa non va, è tutto così buio, così vuoto, niente di ciò che guardo o sento sembra interessarmi, osservo quello che mi circonda senza vederlo, tutto intorno a me è piatto e scuro. Da alcuni giorni sono giunto alla conclusione che il nero sia ormai parte di me, dentro di me, nella mia anima. Devo prendere un appuntamento dal medico, magari mi prescrive un paio di settimane di malattia, in questo periodo mi sento stanco, anche Giusy più volte ha detto di non vedermi bene.
Terminata la sigaretta, provo a distrarmi con la musica, non solo ascoltandola ma facendola. Mi è sempre piaciuto mixare e remixare le tracce che hanno fatto la storia della dance anni Ottanta e Novanta. Preso il PC, preparo tutta l’attrezzatura: hard disk esterno, cuffie e una pila di CD. Certo, quando avevo i piatti e il mixer a casa di mamma era un’altra cosa, mi divertivo sicuramente di più: segnare le battute su ogni vinile dopo averle contate battendo il tempo col piede, posizionare il disco sul piatto facendolo prima vibrare tra le mani per togliere l’elettricità statica, rallentarlo con le dita, regolare il pitch… era fantastico, come del resto era fantastico avere vent’anni o poco più. Niente da fare! Non azzecco uno stacco, un’entrata, oggi sto sbagliando tutto. Meglio spegnere tanto non riuscirei a combinare niente di buono.
È pomeriggio quando Sara rientra da scuola. Caspita come vola il tempo, seconda liceo, liceo scientifico con scienze applicate, io non sono mai arrivato in seconda, una volta e mezza la prima per poi ritirarmi e andare a lavorare in negozio con papà. Un anno di ITIS più cinque mesi di Geometri che non sono serviti assolutamente a niente, se almeno mi avessero lasciato provare a fare un istituto professionale, invece niente, i miei erano fissati con il diploma. Ricordo ancora quando ho manifestato l’intenzione di ritirarmi, di abbandonare gli studi, impossibile dimenticare le grida di mio padre. Ho smesso di frequentare il sabato e lunedì già lavoravo in negozio. Prendevo quattro mezzi ad andare e quattro a tornare, un’ora e mezza per ogni viaggio, non avevo ancora sedici anni, li avrei compiuti a breve. I miei si erano separati da sei anni, abitavo con mamma e mio fratello maggiore Andrea, ma lavoravo con papà. Eppure nonostante i numerosi problemi, erano tempi bellissimi, felici e spensierati.
Tornato in sala, provo a leggere un libro. Una nuova avventura del detective Harry Bosh: Lame di luce. L’ho iniziato già da qualche giorno ma non ricordo nulla, assolutamente nulla. Niente da fare, non riesco neanche a leggere, la mia concentrazione è uguale a zero, le parole, le frasi non hanno alcun senso, non riesco a rimanere concentrato. Meglio uscire a fare quattro passi, magari prendo un altro caffè per provare a riprendermi. Mi vesto lentamente, camicia, jeans e scarpe da ginnastica: la mia divisa quotidiana. Eccomi al solito bar: caffè e quattro pacchetti di MS morbide. Uscito dal locale, per alcuni secondi torno indietro nel tempo, rivedo il servizio militare, penso a quell’anno trascorso in Friuli a più di trecento chilometri da casa, avevo diciannove anni, come mi sentivo forte a quei tempi, potente… invincibile. Ricordo quando mi sono congedato, quella mattina è stata un pianto unico, il pensiero di non rivedere più i ragazzi con cui avevo condiviso giornalmente ogni cosa, era tremendo, devastante. Spostandomi in là di qualche mese, vedo la mia prima auto, una Giulietta 2000 TI rosso fuoco. Usata ma tenuta bene, l’avevo acquistata con i soldi messi da parte appena ripreso a lavorare, ricordo anche il soprannome che gli amici le avevano affibbiato: “la macchina da rapina”. Anche in quel periodo mi sentivo forte, potente… immortale. Quanto mi mancano quei tempi, darei tutto quello che ho per riviverli.
Tornato a casa, osservo Giusy preparare la cena e anche se completamente privo di appetito, decido di sforzarmi a mangiare qualcosa, ho già perso abbastanza chili in questi mesi. Un piatto di pasta al sugo, l’ennesimo caffè, poi sdraiato sul divano aspetto le 22 per uscire e recarmi al lavoro. Ecco, se penso allo stabilimento lo stomaco si chiude ulteriormente. Quest’impiego non mi è mai piaciuto, ma ultimamente fatico proprio a digerirlo. Sono arrivato all’alba delle cinquanta primavere per ritrovarmi a fare il turnista, non avrei immaginato di finire così: tuta da lavoro, scarpe antinfortunistiche, guanti, elmetto e strani colleghi su cui, come capo turno e preposto aziendale, ho la responsabilità. Questa vita non mi piace più, che futuro posso avere? Nessuno. Ho commesso troppi errori, in questi anni ne ho inanellati uno dopo l’altro, vale la pena proseguire? Non ne azzecco una, come mi muovo, sbaglio. Il passato… quello sì è valso la pena vivere.
Nell’attesa di uscire, provo a distrarmi ascoltando musica dal lettore MP3. Non dormo e non riesco neppure a rilassarmi, mi sento inutile, inutile e solo. È vero, ho una bella famiglia, ma per quanto mi vogliano bene, questo non basta a fare luce nel buio corridoio in cui sono finito. Continuo a rivedere il passato: il negozio di papà, la mia prima ragazza e le numerose cavolate fatte con gli amici. Vladi, Michele… ecco, non dovevo pensare a Michele, sono quasi sette anni che è partito per l’ultimo viaggio, il viaggio da cui non si fa più ritorno. Volevo davvero bene a quel ragazzo, per me non era un semplice amico ma un vero fratello. Cresciuti nello stesso cortile, abbiamo vissuto mille avventure assieme, eppure nel giro di in un solo anno, quella cazzo di malattia è riuscita nel suo intento e l’ha portato via. Io lui e Vladi: amici da sempre… per sempre amici!
È arrivato il momento di prepararmi, devo uscire. In fabbrica arrivo sempre in anticipo, mi piace organizzare il lavoro, quando monto di turno tutto dev’essere pronto e in ordine, poco importa se per i colleghi sono un pirla che regala ore all’azienda, a me piace avere tutto sotto controllo.
Svogliatamente indosso gli abiti, solita felpa blu, jeans chiari e scarpe da ginnastica. Alle 22 saluto Giusy e Sara pronto a lasciare casa. Nel corsello box c’è silenzio e alzando lo sguardo, osservo le luci delle abitazioni che affacciano in cortile. La maggior parte delle persone in questo momento sono dentro casa davanti la tv a godersi la famiglia, ma non io, questo non vale per me, io devo lavorare. Aperta la piccola rimessa, esamino attentamente la mia Ford Focus nera seguendone con le dita la fiancata fino a giungere alla maniglia. Pigramente salgo in auto e avvio il motore. Come un automa percorro le strade del quartiere senza vederle, completamente privo di concentrazione guido male e in maniera distratta. Lungo la strada osservo le prostitute ferme a bordo delle auto in attesa di clienti. Come sono cambiate le cose, una volta le trovavi seminude davanti a un falò acceso oltre che per farsi notare, anche per scaldarsi durante le rigide notte invernali, ora aspettano sedute comodamente in macchina con riscaldamento e aria condizionata. Quante volte da ragazzini, spingendoci in motorino nelle vie più buie e isolate del quartiere, le abbiamo prese in giro e ricordo perfettamente anche i loro insulti nel vederci arrivare.
Che palle, questo maledetto semaforo non è mai verde, possibile che a qualsiasi ora percorra questa strada, lo trovo immancabilmente rosso? Senza neppure sbattere le palpebre, come in stato di trance, fisso il semaforo senza vederlo, la mia mente è ferma, offuscata, spenta. Verde. Premuto il pedale della frizione, ingrano la prima rimanendo con lo sguardo perso nel vuoto. Seconda, terza, quarta, quinta, sono in sesta quando il conta chilometri segna centoventi chilometri orari. Questo tratto è perfettamente rettilineo e i cartelli posti lateralmente che indicano il limite a cinquanta non mi interessano, non li vedo proprio. Il piede continua a premere sull’acceleratore… centotrenta, centocinquanta… La brusca curva a destra si avvicina rapidamente e per un attimo il mio cervello si spegne: non devo lasciare il gas ne sterzare, ma proseguire dritto, sfondare il guardrail e precipitare nel canale… è l’unico rimedio per porre fine a questa sofferenza.
La mente torna a funzionare e con un improvviso guizzo di lucidità, premo con forza il piede sul freno. L’auto si scompone ma, ancorato allo sterzo, la controllo portandola sulla banchina a lato della carreggiata. Se avessi tardato ancora un attimo, ora mi troverei nel canale. Arrestato il motore, lentamente scendo dall’auto, fatico a stare in piedi e mi tremano le gambe. Accesa la sigaretta, inizio a piangere, sento le lacrime scendere copiose sulle guance e il sapore del sale sulle labbra. C’è qualcosa che non va, mi vergogno di me stesso, non posso aver pensato una cosa simile eppure, anche se solo per pochi attimi, l’ho pensata. Ho bisogno d’aiuto, devo trovare qualcuno che mi aiuti a venir fuori da questa situazione, da questo malessere. Asciugate le lacrime col dorso della mano, risalgo in auto per proseguire in direzione dello stabilimento. Il breve tragitto che mi separa dalla fabbrica, lo percorro con la paura che il cervello mi si possa spegnere nuovamente, non ho più il controllo della situazione, non ho più il controllo di niente, neppure di me stesso.
Il turno lavorativo lo trascorro deconcentrato, la mia mente è altrove e oltre a ripercorrere i terribili momenti vissuti poco prima, ho anche paura che i colleghi su cui ho la responsabilità, possano farsi male, oppure che per una mia negligenza, possa verificarsi un disastro ambientale, in fin dei conti sono tonnellate di prodotti chimici e derivati del petrolio quelli con cui ho a che fare giornalmente e basta veramente poco per commettere uno sbaglio, un mio errore può causare notevoli danni, danni irreparabili.
Quando smonto di turno è venerdì mattina e mi sento completamente distrutto. Non conosco gli orari della mia dottoressa e comunque escludo di riuscire a contattarla oggi, la chiamerò lunedì. Devo a tutti i costi fissare un appuntamento, non posso andare avanti in queste condizioni. A dire il vero mi piacerebbe anche sentire la psicoterapeuta che mi ha seguito per alcuni mesi l’anno scorso, ma dopo avermi disdetto gli ultimi appuntamenti, non l’ho più sentita, mi spiace era davvero brava e mi trovavo bene con lei. Forse ho detto qualcosa di sbagliato, non so, non ne ho idea.
Il lunedì arriva veloce, anche perché il weekend lo trascorro in stato di catalessi provando a riprendermi dalle cinque notti lavorative. Non ho fatto parola con nessuno di quello che è successo, del gesto estremo che per alcuni secondi ho pensato di commettere, ho sempre risolto i problemi da solo e ritengo sia inutile allarmare chi mi vuole bene. Anche oggi non ho intenzione di chiamare il medico, non me la sento e poi non so cosa dire. Devo trovare le parole giuste per descrivere questa particolare situazione, in questi giorni preparo un discorso, magari lo scrivo e poi telefono.
I giorni che seguono sono piatti, bui e privi di ogni interesse, il tempo mi scivola letteralmente addosso. Questa è la settimana di secondo turno, inizio alle 15 e smonto alle 23, ma come sempre, quando sopraggiunge l’ora di uscire per recarmi in stabilimento, la mia sofferenza e il mio malessere aumentano. È un vero inferno, dormo pochissimo e mangio ancora meno. Quando rientro è ormai buio e il buio mi fa paura, l’oscurità mi ricorda giovedì notte e temo mi si possa spegnere nuovamente il cervello, non solo alla guida, ma anche durante l’attività lavorativa ho il terrore possa capitare qualcosa di brutto a me oppure alla squadra di cui ho la responsabilità. Lavoro per inerzia, sono distratto, deconcentrato e in più continuo a rivedere il passato, penso a quando ero ragazzo, a come stavo bene, a quant’ero forte. Non posso andare avanti così, ho bisogno d’aiuto, devo trovare il coraggio di chiedere aiuto, non l’ho mai fatto, ma devo riuscire.



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